venerdì 8 aprile 2016

Gino Scartaghiande

OGGETTO E CIRCOSTANZA

I

Avevo la simpatia di
pormi in un regno
che scompare. Sempre lontano

dal vero dove poi le presenze
ti respingono è una voce così
vicina che sembra tale. Dove

incontri è un coricarsi e un
peso delle foglie viste.

Io non avevo dimestichezza
o densità o coincidenza.

Se seminavo so anche
divorarne il vento, sempre

quando le visioni d'arte
sperdevano di tutto il nostro.

Una notte d'inverno
invitava lentamente la penombra
come un fanciullo riconoscente
la sua ottima posizione. Restarne

l'esistenza che poi sconvolge
le porte, chiude le fatiscenti
statue della luce ma non
gli baratta un sogno dall'opposto
scorrere del fiume. Quasi nulla.

Io rigettavo il proprio. Labbra
più veloci di me accorrevano.
Era una figura
metafisica, con prepotenza.

Io seppellivo la testa
che ritornava sempre. Come
possono roteare di cieli
e più elementi l'infittirsi.

Io volevo più grazia e quasi
supplicavo. Io volevo soccorrere
e spiegarmi.

Mentre più luci possono
illuminare, può che tu ne vedi
la cornice d'un paesaggio
e atmosfere tenere.

E cosa fondono questi
paraventi di cieli e cosa
mandano e perché un
personaggio di me si cullava
da dentro, quasi da dentro
un mistero.

Era il silenzio stesso
a guardarmi e divorarmi.

Io calpestavo nel molle
ma ero benefico.
Aumentavo come minimamente
le nubi convergenti.

Prima di ciò
avevo la facilità
d'esserci. Ora è come
da una finestra a metà
senza differenza ma doverosa.

Grande maestà del cielo è
solo una dimenticanza
non tutta a prenderla
solo per niente poterne.

Era una dolcezza senza merito
che dovevo proteggere.

Calmano d'ora in fuoco,
scalano di porta e bianche
ali, il senno di domani.

È persa quella vicina mischia
d'anni lo porgono e un po'
meno del consenso. Teneramente

la tua tacita stanchezza.

Sommersioni a intero
vantaggio di notti.

Invitavo mute conseguenze
e consegno chiavi d'oro
in mani chiuse.

Corpo distende metà anfore
di mare, seppellivi dove
più si svuota il vero
un cumulo di beatitudini.


II

Oasi marchiano queste porte
e depositarie di cicli deserti.

Carmi dell'opposto albero
nubi fuori carminio l'oscura
ventilando il denso creato. Portato
è il tuo cosmo.

Dei tuoi occhi arenati
contro il fuoco. Di sorgere
come la filante equorea.

Erano i sensi errano non presi
scavalcano dalle porte l'interno
ed una pace è dargli il doppio
dell'essere la propria coincisa
forma e sentire o di lei il corpo.

È messa a punto di germi
a varie vicende fino ad
un riposo. Si contrariano
si incutono dell'uno l'altro
e placano nel fermo ma
o possessi lontani o stillano
il condono che aspirano ed è
la somma loro del prescindersi.

Perché non immaginano, una polvere
bianca della densità è discesa
una ferma nei marmi su scale.

A vortice dei cieli è il silenzio
dell'amore, così sempre regge
il risveglio, la verità.

Poiché con occhi molli
si confondono, s'insinua
lo specchio delle forze
e toccano l'acqua. In uno
di questi sensi è la cara
luce che distrugge. Noi

uscendo e confusi dall'alito
nei cerchi s'incarnano come
spine
ma dentro una di esse
accatastano i vetri, massimamente.

Io conto di non più
tornare. Quando più non si ha
non si è forse persi ma
ci si condona del proprio,
nel vero senso. Io pensavo
che già la fantasia, per l'amore
mio, fosse tutto perdere.

Poi ed è l'affanno
cadere nelle fitte conchiglie
e risolversi, api e

magnificenza, un altare
fermo in uno ma le
ferite un po' sparse
dappertutto.

Gli osanna, la
referenza, questo è il mio paesaggio
che resta. I grandissimi cieli,
le navi e il ventre della mercanzia.

Ho da rifarmi un'anima.
Quando scendono i geli e dove vibrano.
Succede a lato d'un capo
reclinano gocce, scende come un cristallo
traspare. Come gli amori
affondo accortano in mezzo al buio.

Io non ho mai
incominciato a dire.
Se non la vanità. Io attendo
una grazia e solo questo
mi sento di dare.

Sono che apri i tuoi sorrisi
sono le rose ma ad vertici
altissimi è tutto o
niente e vive senza tempo.

Come conche riempi d'argento
con una grazia. Io cammino
da solo e sogno l'insostenibile
artefice che m'accompagno.
Io ricerco
dal miracolo dell'armonia
quando mi
lasciasti
dalle ormai inutili
e supreme armonie per
raggiungermi con me in te.

Poiché la sostanza
è fede nel bene. Io non lascerei
da questo interregno del
vuoto se non gli stretti
fili che mi legavano.

Se non di reggerli
nella grazia
che li avviene. Nel fuoco prima
che sorge e da sempre se non
dal mio o la densità lasciata,
dalle visioni d'ogni cura da ciò vuoto che
li permea.

Io scompaio e tu ed anche
scompaiono le voci che più
sono e ciò che più resiste.

Nel ciò d'un lampo
inesistente che non vedono
le creature perdersi
il canale morbido della
luce. È così dalle mani,
è il primo d'ora è l'avanti
che salutano. È come le sepolture
da una strada che si abita.
Qui non si lega.
Ciò che non torna non su di me
brace prendono fuoco.
Ma come si consuma di dire,
ho da rifarmi.

Io con il vento m'avvicinerei
al corpo delle tracce
e in calici distesi nominerei
la creta infinita che s'incurva
a rispecchiarti.

Ha un mattino delle zolle
ancorato in fondo che mani
divine toccano l'acqua, uno specchio
di forze curve a rimorchio
del tempo.

Ho voluto scagliare te
contro di qui per esserti
viva, farne prova nella vera
sorda musica parlante.

Come una strada intorno
ai tronchi di ciò che
dire, era una sensazione.

Scardina il grembo
delle navi la luce, sfolta
ora nella quiete bassa
della marina, le corde
anfibiotiche che la sospingono.

Essere è coincidere. Feroce
starsene della parola
al proprio accento. Se
bocca a bocca, se oggetto
e circostanza, essere è teatro.

L'astuzia del fiore
insieme all'aria, il
bene di lei reciso.


Quanta pioggia è stata
detta. Avverrà che io
mi ristabilisca, il silenzio
meditante della pioggia.

Come ci ha inseguiti,
fin'oltre la confluenza
in fiamme dei doveri. Noi

trasposti ad ogni
lingua, un po' più indietro
e più vicini a ciò
che ne sarà la resa. Contenzione
delle bende azzurre
dove disciolto il capo
riga in fuga il vento
e le città. Improbabile
doponotte che vi estinguerà.


III

Non l'immaginario è il paese.
Egli, nella densità d'angelo,
scanala una città dalle
altezze. Non fu popolo, mai,
tra i serrami d'oro delle
leggi, a seguito, nella distesa.

Non sei solo a scomparire. A parte
il genio. Accade spesso che si diventi
neutri, se sostanziati dalla luce, accade
sempre, lo spirito che può darci, mentre
una cosa è fatta è un'altra che compare.

Io dico l'essere, noi. Tutto
l'immaginabile è l'antichità.

Siedi e s'apre un'astuzia
dello spirito, febbre, oro. Esserti
più fedele d'una immagine è questo
stesso disastro. Coincidere ogni linea
del mare, in un teatro. Ho stabilito
che non so dove mi ha già portato
l'interminabile luogo del suo eccesso.
Non potenza che comunica, non
l'immaginario, la sterile pietà del genio.

La polis mimica dei tuoi mali
è la densità, la cecità.

Nessuna indagine spaziale
rapisce il genio che ne risponde.
Che ti segue, sbendato spettro
d'ogni vento che ha contrariato
una tessitura. Esilità del tuo.

Su queste ragioni il cielo non ha
ragione di morirvi.

È lontananza tutta, una differenza
chiusa di lei, che più non dice.

Incombe grondaia e paradiso
nel nido. Accumulazioni
che da un giorno scompaiono.

L'innocenza, desidera
trascinanti echi dopotutto. Hai
paura che da sotto, da un cielo
ti si pone addio.

Colmano d'ore,
prospera divino morbido le nuvole
acconsentono uno specchio, e
o dolore o sfrenata. Calpesta e corre
e ricordandosi a qualcuno insieme.

È l'abbandono. E se bene
risolleva il guasto e se un dio
unico ci traspone. Quell'appartenenza
che coincideva. Dopo una figura,
ecco precipitare.

Tu metti trascorsi in testa. Tu lasci.

Risparmiano quei fiori smutano
anche onde del mare dove
passarono. Quei cristalli sono.

Nel senso dell'armonia tu
fantastichi.
Che mani in vece tua giungerebbero
ad un fondo.

Come ti dai anche a noi
nel durevole della sabbia
che risplendi.

Chiaro dall'origine sua

all'identica fine.

da Oggetto e circostanza, raccolta inedita di prossima pubblicazione.

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