lunedì 28 settembre 2015

Giambattista Vico


AFFETTI DI UN DISPERATO

Lasso, vi prego, acerbi miei martìri,
a unirvi insiem ne la memoria oscura,
se cortesi mai sète in dar tormento;
poiché son tanti, che lo mio cor dura,
di mille vostre offese i vari giri,
ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:
talché di rimembrar meco pavento
le mie sciagure. Or voi, sospiri accesi,
ite a seccarmi i pianti in mezzo al varco
del ciglio d’umor carco;
e voi, da miei sospir miei pianti offesi,
tornando in giù, di lor vi vendicate
con sommergerli adentro ’l mesto core,
a cui per le vostr’onte ornai si toglia
che possa la sua cruda amara doglia
sfogar, poiché così agio non fate
ch’uscendo fuor con voi il mio dolore,
lasci l’albergo d’ogni nostro affetto;
perch’io, finché m’ha morto, in mezzo al petto
serbarlo vo’, se mai quel che m’avviva
potrà menarmi del mio corso a riva.
Perché cadente ornai è ’l ferreo mondo
e son già instrutti a farci strazio i fati,
di pari con le colpe i nostri mali
crebber sugli altri delle prische etati
troppo altamente, poiché sotto il pondo
di novi morbi i gravi corpi e frali
gemono smorti, ed a la tomba l’ali
il viver nostro ha più preste e spedite,
e son sempre feconde le sventure
di sì fatte sciagure
non più per nova o antica fama udite,
e dal pensier uman tanto lontane
che crederle men sa chi più le prova:
talché sembra lo ciel che non più accenda
benigno lume, onde qua giù discenda
un’alma lieta. Or chi cotanto strane
guise di mali intende mai per prova,
se potesse mirar qual è lo scempio
che di me fa mio destin fèro ed empio,
al suo, ch’or chiama avaro ed or crudele,
grazie sol renderia, non che querele.
Di qualunque animal, quando primiero
a l’ime soglie del suo viver giunge,
lo ’nfocato vigor onde ha la vita,
con dolci nodi amici e’ si congiunge
la sua salma; e un caso adverso e fèro,
pur sia stella avara in darmi aita,
o natura dal suo corso smarrita,
di duo adversari me, lasso! compose:
il mio mortale infermo, afflitto e stanco,
ch’omai par venir manco,
strazia l’alma con pene aspre, noiose;
e ’l mio miglior, che d’egre cure abonda,
affligge ’l corpo con crudeli pesti:
e mentre, oimè! con pensier molto e spesso
me ’nterno a sentir me contro me stesso,
membro non ho ch’a l’anima risponda,
poiché non ho vertù che i sensi désti,
se non se ’n quanto mi si fan sentire
gli acerbi effetti de’ lor sdegni ed ire.
In sì misero stato e sì doglioso
va’, spera, se tu puoi, qualche riposo.
Ma ’l piacer fèro di dolermi sempre
parmi ch’alleggi in parte ’l mio cordoglio,
se del mio stato a lamentar mi mena;
ond’io, ch’a più e a più dolor me ’nvoglio,
farò, cantando con suavi tempre,
che pel contrario suo poggi mia pena.
Vita sovra ’l mortai corso serena,
moderati piacer, delizie oneste,
tesori per valor vero acquistati,
onori meritati,
mente tranquilla in abito celeste;
e, perché più lo mio dolor s’avanzi,
talché null’altro mai fia che l’agguagli,
amor di cui è sol amor mercede,
e vicende gentil di fé con fede,
venite al tristo pensier mio dinanzi,
ch’e’ vi farà sembrar pene e travagli
a lo mio cor, perché di duol trabocchi,
sì come rossa gemma avanti gli occhi
posta talora, egli adivien che facci
rassembrar sangue il latte e fiamme i ghiacci.
Rinfacciatemi or voi, s’unqua potete,
qualche vostro favor, stelle crudeli!
Ite, e ven prego, a ritrovarlo ornai
entro quei moti de’ benigni cieli,
che ’nfluiscon qua giù gioie men liete.
Solo ben io da me so che non mai
bevvi respir, che non traessi guai.
Deh! perché da la vita altra beata,
stanco da tante alte sciagure e rotto,
misero, fui condotto
a la presente amara e disperata?
Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,
c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,
veggio esser nato per mia cruda sorte
solo a fiamme, sospir, lagrime e morte.
E così crudi scempi e acerbi affanni
non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto.
Ah, che daranno tempo al fato rio
che meglio studi ’l precipizio mio;
se non è forse che la morte avara
tema col mio morir farsi più amara!
Mi venne sol da luminosa parte
del cielo una vaghezza di destare
a pie de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra
la bella luce che fa l’alme chiare,
ch’a la povera mia si spense in parte
quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra:
talché, d’alto stupor finor ingombra,
parea a se stessa dir: – Lassa! chi sono? –
debbami dar il nome;
ma sempre ’l chiamerò pena e non dono,
se affligge più chi più conosce il male.
Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
cui sa ignoranza cagionar contenti,
ch’obliati sudor, fatighe e stenti
acquetar vi sapete a un dono frale
o di poma o di latte over di fiori;
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;
ne altra gioia a voi sembra che piaccia
che rozzo amore o faticosa caccia!
Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso,
fra tanti strazi abbandonato e solo,
ne la misera mia vita che meno?
che fatto son noioso incarco al suolo,
anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso,
come in suo centro, han la lor quiete. Almeno
il mio piacer e’ fosse il venir meno;
ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo
sempre a novi sospiri e a pianti novi,
piovi miserie, piovi
sovra ’l mio capo, empio destino acerbo;
e non voler meco mostrarti avaro
d’altri scempi più infesti e più nemici,
ch’i’ tua penuria e non pietà la stimo;
se non è forse invidia ch’i’ sia ’l primo
tra disperati e che mi renda chiaro
essempio di dolor agl’infelici.
Ma per le pene mie i’ giuro a queste
aspre selve, solinghe, orride e meste,
che non mai turberà, mentre respiro,
i lor alti silenzi un mio sospiro.
Canzon, sola rimanti a pianger meco
dove serbo ’l dolor, né fra la gente
d’ir chiedendo piotate abbi vaghezza;
che l’alto mio martìr conforti sprezza.
Ma, se doglia compianta e’ men si sente,
sdegna ch’ancor tu resti a pianger seco
l’afflitto cor, che disperato vòle
che l’aspre pene sue si sentan sole.

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