venerdì 6 giugno 2014

Jaime Gil de Biedma

PANDEMICA E CELESTE

        quam magnus numerus Libyssae arenae
        ...
        aut quam sidera multa, cum tacet nox,
        furiuos hominum uident amores.
                      Catullo, VII


Immaginati adesso che tu ed io
a notte già inoltrata
parliamo da uomo ad uomo, finalmente.
Immàginatelo,
una di quelle notti memorabili,
di rara comunione, la bottiglia
mezza vuota, i portacenere sporchi,
dopo aver esaurito il tema della vita.
E che io ti mostri un cuore,
ed un cuore infedele,
dalla vita in giù nudo,
ipocrita lettore – mon semblable, – mon frère!

Ma non è l’impazienza di chi cerca l’orgasmo
che mi spinge col corpo ad altri corpi 
giovani, se possibile:
io inseguo anche l’amore
dolce, il tenero amore per dormire al suo fianco
e che al risveglio mi rallegri il letto,
vicino come un passero.
Eppure io non posso più spogliarmi
se non ho mai potuto, tra le braccia
di qualcuno, sentire – anche solo un momento – 
lo stesso abbaglio provato a vent’anni!
Conoscere l’amore ed impararlo:
è necessario essere stato solo.
E è necessario in quattrocento notti
– con quattrocento corpi differenti –
aver fatto l’amore. I suoi misteri,
come disse il poeta, appartengono all’anima,
però è un corpo il libro dove leggerli.

Perciò sono felice d’essermi rotolato
sulla rena, noi due mezzo vestiti,
mentre cercavo il tendine della sua spalla.
Mi commuove il ricordo delle tante occasioni…
Quella strada in montagna
e gli abbracci furtivi ma ben spesi
e l’attimo indifeso, in piedi, alla frenata,
appiccicati al muro, accecati dai fari.
O il tramonto sul fiume
sorridendoci, nudi, incoronati d’edera.
O quel portone a Roma – al Babuino.
E i ricordi di facce e di città
appena conosciute, e di corpi intravisti,
di scale senza luce e di cabine,
di bar e di postriboli, di vicoli deserti,
d’infiniti casotti balneari
e di fossati di un castello.
Ma, soprattutto, i ricordi di voi,
o notti negli alberghi di una notte,
nottate decisive in sordide pensioni,
in camere già fredde,
notti che ai vostri ospiti rendete
il sapore di sé dimenticato.
La storia in corpo ed anima, un’immagine a pezzi
de la langueur goutée à ce mal d’être deux.
E senza disprezzare – allegri come 
in un giorno festivo a metà settimana – 
esperienze promiscue.

Benché sappia che a nulla mi varrebbero
le fatiche dell’amore disperso
se poi non esistesse il vero amore.
L’amore mio,
                         l’immagine intatta della vita 
mia, sole delle notti che le rubo.

La giovinezza sua, la mia,  
– musica del mio fondo – 
sorride ancora nella grazia imprecisa
d’ogni giovane corpo,
in ogni incontro anonimo
dandogli luce, e un’anima.
E non ci sono cosce belle che le sue cosce
belle non mi ricordino
quando ci conoscemmo, prima di andare a letto.

Né la passione d’una notte di sonno
che possa confrontarsi
con la passione che ci dà il conoscerci
e gli anni d’esperienza
del nostro amore.
                                 Perché anche nell’amore
ha un’importanza il tempo,
e, in qualche modo, è dolce
con mano malinconica provarne
il passaggio avvertibile su un corpo  
– e intanto basta un gesto familiare
sulle labbra 
o il fremito leggero di un suo membro 
per suscitare in me la meraviglia 
di quell’antica grazia, 
un riflesso fugace.

La sua pelle sciupata voglio premere
– già passati altri anni e avviati noi alla fine – 
con le labbra invocando l’immagine 
del suo corpo, e di tutti gli altri corpi, 
già disfatti dal tempo, che una volta
ho amato, anche soltanto per un attimo.
Domandando la forza per continuare a vivere
senza bellezza, senza forza e senza 
desiderio, ma ancora insieme, uniti
fino a morire in pace, noi due, come si dice
muoiano quelli che hanno molto amato. 

Traduzione di Francesco Dalessandro


da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981





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