venerdì 7 giugno 2013

Carlo Betocchi


L’ETÀ MAGGIORE 

I

Con furore mi getto su queste carte,
e doloroso stupore, l’anima è oppressa,
le stoltizie che ai desideri accordò
le ricadono addosso come vane querele,
quale in novembre lento piovigginare;
e reclama un più solido esempio,
vuol esser colpita, vuole che Tu, mio sterminio,
paterno dolore, pianti i tuoi piedi qui,
nella rocca delle nequizie.

II

Con troppa dolcezza cantarono i miei poeti
prediletti i loro esili giovanili,
e i loro dubbi; i miei son più crudi.
Quella suprema eleganza della poesia del secolo
la mia natura biblica, un dì danzante come David,
ma sempre in cammino, non l’ha potuta adottare:
il mio pensiero pascolava come la pecora
accanto alla pecora, sempre col muso a terra,
in cerca del pasto ho vissuto col mio popolo,
nutrito dalle stagioni, parlando col loro discorso
lineare, secondo il lento passo dell’errare
delle transumanze, in cerca di cibo, non so più
se di Dio.

III

Ma ora so che si può anch’essere stanchi
perché la mia stanchezza non ha sonno,
non cade su se stessa, ma si solleva
dal suo giaciglio con la notturna
energia di un tramonto quale ha di pietra,
in Firenze, nelle tombe medicee,
la meditata effigie. Questa è l’età
dalla quale passarono i grandi vegliardi
che impugnarono la loro stanchezza
come un’arma. Di qui comincio a conoscermi,
a giudicare; la mia vita si popola
di un brulichìo ignoto di mostri
quali mai li conobbi; mi se ne gonfia
il petto, già s’arrovella alla lotta.


Da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

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