venerdì 7 dicembre 2012

Alessandro Peregalli


LAMENTI

MORTE, DOLORE SUPREMO

Nella notte profonda, mentre la pioggia
risuona continua nella strada e io
mi appoggio al davanzale e guardo i muri di fronte
lievi e grigi nella tenue luce del cielo, penso
alla grandezza dell’universo, all’inutilità
della mia vita, di quella di tutti, al giorno in cui
giacerò con le mani giunte, solo,
nella bara fredda che mi terrà prigioniero.
E potessi almeno quel giorno ripensare alle rondini
che volano gridando intorno alle grandi cupole
delle chiese al tramonto e ricordare
lei che si china teneramente sopra di me piangendo, potessi 
                                                                                   /pensare
con tutto l’attaccamento a questo mio cielo, a questa terra
calda dolce e dorata, a questa terra nera
e solitaria, di notte, funebre, potessi pensare alla morte,
ultimo dolore immenso che mi ha colpito
e mi ha obbligato le mani giunte e mi ha staccato da tutto.


INARRESTABILE MORTE

Nell’ombra della sera, quando le stelle
fioriscono di luce indistruttibile in cielo,
la mia anima manda ad esse il suo eterno lamento,
perché sono qui in questa mia vita costretto
al lento approssimarsi della mia ora fatale,
sefiza poter levare gli occhi nell’infinito,
senza potermi unire alla gran madre Terra
da cui mi separano queste pareti inderogabili e grige.
Perché il mio amore, indistruttibile come le stelle,
verso il cielo e la terra s’inaridisce nell’apprendere
nozioni schematiche e assurde che mi rubano i giorni
ad uno ad uno, mentre inflessibile s’avvicina l’ora
e un grido di dolore mi scuote al calar d’ogni sera
quando, attraverso il fulgore notturno, vedo la faccia della morte
che avanza sempre più invincibile dall’orizzonte.
O Dio! Tu non sei più che una lontana speranza
e l’essere con Te nella calda gloria diurna un sogno
che sta tramontando nella rosea spuma del mare.

Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003

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