venerdì 11 novembre 2011

Francesco Varano


VI                                                 (per Alessandro R.)

Quando s’infittisce l’esperienza di perdere il ricordo
quando la giovane vita ripeta la vita già è un vedere
dal balcone alla stanza, non sembra, fasciati d’indifferenza,
è un campo di concentramento, poiché nessun altro
ci crede, lo percorriamo, abbandonati da solitudine
fino a sera o notte che inizi! Quando nell’acqua si avvolge
l’opacità della storia, i suoi sentieri uno a uno
nei loro smottamenti precipitano, dai balconi alle
stanze dei Palazzi, senza alcuna vergogna si mostrano
gli uomini del potere.

Il via vai della notte, negli arrivi della vita, ai
cancelli appoggiate le mani, fino alle ombre dei varchi
della metro, dai marciapiedi la sera scende sul volto
il canto che c’era, che sostava , che tu portavi
e la fragranza dei gerani nella carta del pane
avvolti, il canto sale ancora alla memoria dalle
stanze alle stanze della gioventù, s’inalbera un’ombra
molto fonda, e la primavera?
Interruppe l’esserti amico, come l’ultima stagione tua, che
come coloro che vivono a lungo con gli altri, si
protende per un saluto, salvandoci da ciò che cade,
che rapisca, o che nasconda; ritorna un tuo sorriso triste
a colorare questo mio camminare tra le merci quotidiane,
il giardino ricordato e il verde a sormontare altre barriere,
dove rifioriva la tua passione nel giro delle stanze su
via Ozanam, nel loro silenzio che non ti cancellava, ti
sfiorava il respiro dell’inquietudine, il respiro dell’acqua
che scendeva su piazza S. Giovanni di Dio, da dove
cominciavi a guardare il sorriso, un tempo diverso dal
tuo, gentile indugiava e celeste una ragazza non più
adolescente, illuminata sul volto d’attrice, nella sua inquadratura;
un tratto oscillante più volte s’infoltiva nella tua mente,
piegandoti verso di lei, nella bianchissima aria di Settembre,
era un tratto gentile verso cui ti distendevi nel viale irrequieto
sorvolando l’estremità della piazza, sopravvivevi al sonno,
alle canzoni lontane, al tardo smarrimento, vagante verso la calma,
la bellezza che irrompeva nel tuo mattino, giardino, ricordo,
fuori dalla tua ansia, per un istante eri libero in quella attesa dal dolore di
sempre, in quel mattino in cui mi raccontasti che
quel giorno sarebbe passato alla tua storia personale, in cui
vestita di verde e bianco si avvicinava agli ingressi della vita
misurando incanti meno dolci e tristi, con in mano la
sceneggiatura da studiare per il film successivo.


La mia va fino a dimenticare la sua identità, a perdersi
la vita, se si apre qualche squarcio,
è un’antica primavera dei popoli, e la sua cenere scende
e un giorno sul tuo volto fino a ridurre il mio (a) quasi
ombra, uno scatto, improvvisa ombra interrotta sulla
soglia, quando si profila per noi un’intesa di parole, di
accenni, di saluti, quasi ci si sgola: un antico accordo
mentre sali mi chiedi di registrare Lord Jim. Poi da
un mese a un altro un vuoto, che ci lasci liberi di fuggire
da soli per qualsiasi tempesta persi negli incanti veloci,
quando il colore delle chiacchiere ha perso il suo essere
era vivo e mi ricorda l’ultimo anno che è passato, era
una vita che non cerca altro, desidera abituarsi lei
agli anni che si sono accumulati sulla polvere, prendendo a
prestito carezze come dolcezze per tenere in esercizio
un’anima senza risorse nel reale mondo e tempo e colore
e più tempo e più colore e meno di uno e più dell’altro
mescolando con le labbra sillabe nuove per l’orchestra silenziosa
e nascosta e sente il male senza senso il mondo reale.

da La Beltà Brillava, raccolta inedita, 2010

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