venerdì 23 settembre 2011

Beppe Salvia

IL PORTATORE DI FUOCO

nudo smagrito le ossa forti
corre gli altipiani e si nasconde

tra fronde, dove scintilla quel lume,
e le foglie ne primeggiano l’ombra;

inseguito assomiglia l’inseguitore a
nulla, notte non offre specchio,

il suo volto, da nulla apparso, là
dove biforcano a sella i rami
d’una sacra querce, è sottile

e non ha occhi come stelle
bocca che meravigli un sorriso,

e spavento e meraviglia
al fulmine che breccia le stelle –

l’ampio gesto che atteggia lontano
il braccio a ricevere l’ampio
lontano frastuono di nebbie
su chiarità d’acque, nelle acque

quel gesto non specchia
altrimenti che schegge scagliate

da dita che han l’unghie
lambite dal filo d’un chiaro lucore;

sull’acqua chetata a disappunto
le bianche spille del fuoco

rapiscono un crepito, ramifica
il loro disegno sottili cristalli,

le valli s’accolgono al varco
d’un lago, le cime spezzate
dei monti d’intorno, alle rive
circolari accrescono creste

poi cespi rovéti e l’intera
foresta –



avvertono i passi, e il profumo
di siepe avvicina quel fiato,
una cagna e i miti ospiti
dei nidi, trema il manto
della gazzella, lascia cadere uno spigo;

non corre il portatore di fuoco
s’è riconosciuto in quel luogo

e riposa il dolore ove nasconderlo
è stolto;

nel vuoto più sotto una rupe
s’apre la chiara lontananza
del mare, e su quelle altre rive
gli abitanti –

abitarono dove non s’accorse
divieto, il più gramo, o fu povero
d’offese il vento lavico, e abitarono
propria riconoscenza dove poi
abiterà l'inganno, abiteranno

il borgo amico e abiteranno
il borgo pavido, come abitarono
il crinale di schisti ove nascondersi,

abiteranno un tempo là
dove abitarono non visti,
non visti e infine fatti arguti
menzogneri d’un limite

malinconici gli abitanti –



l’alba respira, ammirando, le nebbie
s’animano, adesso corre
lasciando l’orma brillare
il portatore di fuoco, solitario

animale, animano le sue peste
mille abbagli, iscrizioni egli
incontra sulle vie, nei sentieri
le sue orme una brina, scintille
di ghiaccio, sfavilla –
adesso la preda ha preso vigore

attraverso deserti pochi fiori
piccole corolle rosa dell’erica
sono le faville, il portatore
di fuoco demone alato erede
d’ogni dono, regnante ignoto
s’è fermato;

ascolta nelle mani lo strepito
le prime parole avvezze
al cieco dimorare,

                             e sulla terta gocciano
                             da quelle mani i petali
                             raccolti, le rosee scintille,

                             e quella terra ha nuova
                             tetra vitalità,

                             dimenticato è il fuoco –



sotto una roccia a tetto, e fuori
è nuvolo, lampeggia, un fuoco,

un nido raccolto splende,

il soffio che entra nel coperto
spuma le faville, un vortice

le brilla contro l’urlo aperto,
il dispiegato paese di bufera –


(1980)

da Poesia verso..., a cura di Luigi Amendola e Francesco Dalessandro, CCRS BNL – Sezione Culturale «Arti e Scienze», 1982

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