lunedì 11 aprile 2011

IL TUMULTO DELL'ANIMO



Tema antico, trattato da poeti e filosofi lungo il corso del tempo: cambiare luogo può guarire la nostra inquietudine, può placare affanno e irrequietezza? Oppure solo in noi stessi possiamo trovare pace?

Offriamo qui, per primi, due esempi classici, da Lucrezio e da Orazio; poi, alcuni versi romantici, da Leopardi. Mercoledì e venerdì prossimi, quattro altri esempi.



Lucrezio
LA NATURA DELLE COSE, III, vv. 1053-1072

[...]
Se ciascuno sapesse, quando sente gravare
tanto peso sull’anima, che cosa mai lo tormenta
e da dove gli giunga questo dolore assillante
del perenne fardello che gli pesa sul cuore
non sprecherebbe il suo tempo, come spesso gli accade,
nella continua ricerca di quello che ancora gli manca
o di luoghi in cui andare per liberarsi dall’incubo:
c’è chi lascia ad un tratto anche la propria casa
dove non vuole più stare, ma poi vi torna sollecito
perché non trova al di fuori qualcosa di meglio;
c’è qualcuno che corre alla sua villa in campagna
e si affretta spedito, come temendo che bruci:
quando arriva sbadiglia ancora prima di entrare
e sprofonda nel sonno cercando l’oblio,
o di nuovo si affanna per ritornare in città.
In questo modo si fugge soltanto se stessi
ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire.
Come un malato che ignori la vera natura del male:
se riuscisse a scoprirla pure tra grandi dolori
riuscirebbe a curarsi e a vivere in modo migliore.
[...]

Traduzione di Francesco Vizioli
Lucrezio, La natura delle cose, Newton & Compton Editori, 2000



Orazio
EPISTOLE, I, 11 (a Bullazio)

Allora, Bullazio, che ne pensi di Chio,
della tanto decantata Lesbo,
dell’eleganza di Samo,
della reggia di Creso a Sardi,
e di Colofone, di Smirne?
meglio o peggio della loro fama?
Nessuna, proprio, che valga
Tevere e Campo Marzio?
o t’ha rapito il cuore
una città di Attalo,
e ti entusiasmi di Lèbedo
nauseato di viaggi e crociere?
Sai Lèbedo com’è:
un villaggio più deserto di Gabi e Fidene;
ma io lì vorrei vivere,
dimenticando i miei,
dimenticato da loro,
e da riva guardare lontano
il mare in burrasca.
Certo nessuno si propone,
fradicio di pioggia e fango
da Capua verso Roma,
di passare la vita in una bettola;
nessuno, intirizzito dal freddo,
ritiene il calore delle terme
il culmine della felicità terrena;
neppure tu, se la violenza del vento
t’avesse travolto in mezzo al mare,
venderesti la nave, raggiunta la riva.
Sano e salvo, la bellezza di Rodi e di Mitilene
ti serve come d’estate un mantello
o un perizoma quando tira aria di neve,
un bagno nel Tevere d’inverno
o un braciere nel mese di agosto.
Finché è possibile e la fortuna ti sorride,
Samo, Chio e Rodi
è bene lodarle da lontano, a Roma.
Qualunque ora lieta ti concedano gli dèi
prendila con riconoscenza,
non rimandarne di anno in anno le gioie,
e si possa dire che in ogni situazione
sei vissuto volentieri.
Se la logica della saggezza, e non i luoghi
che dominano la distesa del mare,
allontana gli affanni,
chi solca il mare muta cielo, non natura.
Un’inquietudine impotente ci tormenta
e andiamo per acque e terre
inseguendo la felicità.
Ma ciò che insegui è qui, a Úlubre,
se non ti manca la ragione.

Traduzione di Mario Ramous
Orazio, Epistole, Garzanti, 1985



Giacomo Leopardi
AL CONTE CARLO PEPOLI, vv. 78-87

[...]
Altri, quasi a fuggir volto la trista
umana sorte, in cangiar terre e climi
l’età spendendo, e mari e poggi errando,
tutto l’orbe trascorre, ogni confine
degli spazi che all’uom negl’infiniti
campi del tutto la natura aperse,
peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
su l’alte prue la negra cura, e sotto
ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
felicità, vive tristezza e regna.
[...]

Giacomo Leopardi, Canti, Einaudi, 1969

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