mercoledì 27 aprile 2011

David Pujante

BUSSOLOTTI DA MUSEO

In quali cene servirono per giocare ai dadi,
quando i loro padroni arrestavano il corso
della continua festa, io non posso saperlo,
né lo voglio; perduri il mistero del passato
e all’anima offra il verso ciò che la storia nega.

In asettiche sale di musei
hanno perduto il senso ch’ebbero al loro tempo.

Così ce li descrive qualche critico:
«Considerando la precisa idea
che oggi abbiamo del classico,
un circolo di scheletri balla in altorilievo
intorno al vaso».
                               Contrappeso perfetto
della festa notturna in cui forse li usarono
tra le risa e le burle!

Potete immaginare i commensali
snervati dal vino, le loro risa alcoliche
fetide e patetiche.

Quante coppe trincate a affogare lo spirito:
la coscienza insaziabile e tragica dell’uomo!
Si fa prima a ferire col ferro il mare o il vento
che a vincere la smania della mente.

Uomini tristi che trascinano la vita
sono riuniti in un podere, a Boscoreale.
Nessuno pensa all’aurora impudica
che con le fresche dita alza le coltri
e con ali di freddo dissipa il sopore.
Credono che la notte – così propizia alla disperazione! –
sia senza fine. Entrandovi sprofondano
nel fantastico gorgo dell’immensa
tenebra, si dilettano in chiacchiere volgari;
si perdono nei giochi…
                                         I bussolotti
suonano – non ancora da museo –
tra le mani deformi, artritiche ed untuose.
E nel breve contorno del bussolotto mostra
la sua morta presenza il giro degli scheletri.
Uguali nel post mortem, solo qualche
particolare: una lira una maschera…
rivela il loro ceto quando, vivi,
li copriva la carne. E un’iscrizione,
di fianco, incisa a punta,
imita l’esistenza di chi non ne ha più una
in grazia di quel nome che gli uomini ricordano:
anche questo è la gloria.

Ma certo tra il clamore di risate e battute,
in uno dei signori del bacchico festino
qualche volta s’insinua
la gelida coscienza del tragico non senso;
forse quando raccoglie il vaso con i dadi
e anziché alzarlo subito per aria
nel volteggio sonoro si sofferma a guardarlo:
tra le ghirlande del rilievo legge
i nomi di quegli uomini che furono gli spettri.
Giunto al nome di Mosco o Menandro, alla base
del vaso un’iscrizione più lunga così dice:
«Anche i grandi scrittori, i sottili filosofi,
muoiono; noi, i lettori, sappiamolo e beviamo».

Allora, di sicuro, è più rapido il tiro,
gesto pieno di rabbia che nessuno
potrà scambiare per disperazione;
poi quell’attimo lucido in un sorso di vino
naufragherà e fuggendolo il signore riflessivo
si lancerà di nuovo nel gioco e l’incoscienza.


Traduzione di Francesco Dalessandro


David Pujante, La propia vida, Editora Regional de Murcia, 1986


2 commenti:

  1. "Si fa prima a ferire col ferro il mare o il vento
    che a vincere la smania della mente."
    Sono due versi splendidi. Chissà se è la traduzione che li migliora o lo sono anche nell'originale spagnolo...
    A proposito, sarebbero stati l'esergo migliore per i post de "Il tumulto dell'animo" di qualche giorno fa.

    RispondiElimina
  2. Ecco i versi originali:

    Pero antes se consigue herir con hierro el mar
    o el viento que rendir la inquietud de una mente.

    Sì, giusto suggerimento. Peccato non averci pensato.

    RispondiElimina